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Come nasce Last Friday?


Sono passati esattamente due anni dall’articolo che feci sul mio primo gioco “Stay Away!”. A due anni di distanza le soddisfazioni che la piccola creatura mi ha dato sono molteplici e proprio oggi mi è arrivata la notizia da parte di Pendragon che il gioco ha raggiunto la localizzazione in nove continenti. Sono contento di questo e non posso fare a meno di esserne fiero, ma in questi due anni non me ne sono stato con le mani in mano e nel frattempo ho sviluppato, sempre insieme a Sebastiano Fiorillo, il gioco da tavolo  “Last Friday“.

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Si tratta di uno “spaventoso” gioco da tavolo ambientato in un campeggio su cui aleggia una maledizione. La storia di un assassino morto e poi risorto. Ci troviamo all’inizio dell’estate del 1980 e Camp Apache è stato teatro di svariate disgrazie nel corso degli anni che hanno alimentato leggende di vario genere, tra le quali quella di un assassino mai morto. Gli abitanti del paese sono convinti che il posto sia maledetto e che dovrebbe rimanere chiuso per sempre, ma i nuovi proprietari Antony Christy e Sebastian King, hanno deciso di ridare vita alla struttura dopo anni d’inattività e abbandono. Arrivati al campo però, si rendono conto di aver bisogno di una mano e così diramano in tutto il paese annunci di lavoro in cambio di una vacanza. Nel ruolo di un giovane responsabile del campo, riuscirai a sopravvivere a un lungo weekend di terrore? Ti limiterai a fuggire o avrai il coraggio di affrontare il Maniaco? Oppure vestirai i panni dello psicopatico mai morto che si aggira tra le ombre del bosco e sulle rive del lago in cerca di vendetta? Riuscirai a prenderli tutti e a nasconderti prima che faccia giorno?

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Date le premesse come avrete capito il gioco è liberamente ispirato alla serie di film “Venerdì 13” e in generale agli slasher movie degli anni 80. Qualcuno direbbe che il lupo perde il pelo, ma non il vizio e, in effetti, è proprio così. I “Mostri” sono stati (lo sono ancora) la spinta emotiva che rende la mia mente produttiva (o almeno mi illudo che lo sia). Sono sempre i Mostri, amici e nemici della mia infanzia che mi hanno portato a voler sviluppare Last Friday, ma c’è di più.

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Jason, il famoso psicopatico con la maschera da hockey ha scandito le mie giornate da ragazzino. Come per la genesi di “Stay Away!” torniamo sempre a quel famoso parco La Quiete a Piano di Sorrento e agli amici con cui passavamo le nostre vacanze estive o meglio, le nostre avventure (Qualcuno ha detto Tales of Evil?). A quei tempi Jason era diventato l’uomo nero per tutti noi e ci perseguitava non solo attraverso lo schermo a tubo catodico della mia stanzetta, ma grazie alla nostra fantasia, gli avevamo dato vita, dapprima passando interi pomeriggi a giocare a Friday the 13th il videogame per Commodore 64 (premi F12 se ne hai il coraggio), per poi farlo diventare uno dei personaggi di Super Cluedo di cui avevo inventato una versione completamente nuova che chiamai “Il Gioco dell’Assassino” che ebbe molto successo tra il gruppo che oramai non ne poteva più della Signora Pavone (per uno strano caso nove volte su dieci l’assassina era lei… bah…).

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Jason fu anche il primo personaggio del nostro primo gioco di ruolo vivente. Praticamente tramite le carte Napoletane stabilivamo i ruoli del gioco. Ricordo ancora che il Re di Spade era Jason, mentre le altre carte rappresentavano i campeggiatori. C’erano anche carte speciali come il Cavallo (qualsiasi seme) che rappresentava lo Sceriffo che aveva il compito di uccidere Jason. Il gioco funzionava in questo modo: Tutti giravano per il parco e si comportavano in maniera normale (praticamente si passeggiava e discuteva come se non si stesse giocando affatto, ma in realtà tutti spiavano tutti stavano attenti a non farsi ammazzare) e il compito di Jason era quello di uccidere tutti i campeggiatori mediante il tocco. Ovvero se qualcuno ti toccava con un dito, simulando una pugnalata (almeno per noi dodicenni era così), il tizio ucciso non doveva simulare la morte subito (altrimenti si sarebbe subito capito chi fosse stato Jason), ma doveva contare silenziosamente fino a 30 continuando a vagare e poi urlare a squarciagola e accasciarsi per terra. Ora potrebbe sembrare una cretinata, ma vi posso garantire che di notte o comunque al crepuscolo una cosa del genere ci terrorizzava. Ovviamente nel gruppo c’erano attori nati e mezze calzette (almeno sul fronte della recitazione) e quindi si assisteva a scene al limite del grottesco in cui trovavi un “cadavere che mangiava un panino con la frittatina, oppure uno in piscina che nel frattempo aveva deciso di rinfrescarsi le idee e non solo… (è successo anche questo credetemi). Dopo la morte (fortunatamente simulata) ci si incontrava sotto il lampione al centro del parco e si facevano ipotesi su chi tra quelli ancora in vita potesse essere l’assassino (semplicemente Jason per noi). Se nessuno “accusava” il gioco proseguiva normalmente, altrimenti chi aveva accusato doveva verificare in gran segreto l’identità dell’accusato e nel caso non fosse Jason, sarebbe stato eliminato dal gioco, in caso contrario vinceva perché aveva trovato Jason. Poi c’era lo sceriffo che poteva sparare a Jason, ma ve lo racconto un’altra volta perché credo di essermi dilungato anche troppo.

Dove eravamo rimasti?

Last Friday è il mio personale omaggio al buon vecchio “Jasone” e alle emozioni che ci ha regalato. Sono veramente orgoglioso di quello che io e Sebastiano siamo riusciti a tirare su. Anche questa volta Pendragon Game Studio ha creduto in noi e ci fa molto piacere che sin dall’inizio della nostra avventura si siano affiancati anche partner del calibro di Ares Games che ci permette di portare oltreoceano il nostro “piccolo campeggio”.

Rintracciare quello che uno si porta dentro e il vissuto che porta al concepimento di qualcosa è impossibile, ma ho cercato di ritrovare in qualche modo il filone principale che ha portato alla realizzazione di Last Friday, ma c’è di più e peccherei di onestà se non ringraziassi anche e soprattutto tutti coloro che hanno permesso tutto questo. Un ringraziamento speciale va a mia moglie (sempre troppo buona e paziente con me) e tutti gli amici del Parco La Quiete, come vedete vi porto sempre nel cuore. Vorrei altresì ringraziare personalmente Sasà Varriale per aver portato sul finire degli anni 80 quel gioco chiamato Scotland Yard sotto la “capannella” e ringraziare Gabriele Mari e Gianluca Santopietro per aver ideato quel bellissimo gioco che è Lettere da Whitechapel.

Settimana prossima dal 28 ottobre al primo novembre sarò al Lucca Comics – Padiglione Games – stand A13 presso Pendragon, venitemi a trovare.

Una nuova avventura ha inizio e non dimenticate che certe leggende non muoiono mai…


Perché scrivere horror? Perché leggerlo?


Strictly Jason Friday the 13thCercherò di sfatare quelli che secondo me sono alcuni luoghi comuni. Chi scrive horror non è uno psicopatico, un prete e neanche un membro di una setta satanica. Chi si cimenta in questo genere non lo fa perché in quel dato momento va di moda o per scrivere qualcosa di diverso. Chi scrive horror lo fa esclusivamente (odio gli avverbi, specie quelli che terminano in -mente) per un’unica ragione: la passione. Chi sente il bisogno di imbrattare la pagina di un taccuino, lo schermo elettronico di un computer di storie al limite del verosimile, lo fa perché sin da piccolo si è interessato a capire cose lette, viste e sentite, senza mai avere la certezza di quello che aveva intuito. Chi si occupa di narrativa del genere cerca nel suo piccolo di enfatizzare ed esteriorizzare paure, angosce e sentimenti nel tempo in cui vive, generando mondi paralleli irreali, ma allo stesso tempo così maledettamente reali. Lo scrittore pone i propri personaggi al centro della storia e cerca di farli uscire indenni. Certo non sempre ci riesce, ma il vero messaggio spesso è celato tra le righe. Una storia appassionante porta a una lettura veloce e piacevole da parte del lettore, ma questo non basta. Un romanzo horror ha sempre messaggi nascosti e spetta alla sensibilità di chi legge, in base al feeling che quest’ultimo ha con lo scrittore o con quel determinato romanzo, il compito di decifrare certi segnali.

A differenza di come molti “benpensanti” pensano, chi scrive horror o comunque il fantastico in generale, non lo fa per sfuggire alla realtà o per isolarsi da essa, bensì per osservare e comprendere la realtà che lo circonda, gettando lo sguardo nell’abisso di un pozzo di campagna. Un posto dove nessuno andrebbe mai a guardare. Nessuno tranne uno scrittore horror.

Questo non vuol dire che lo scrittore (qualsiasi cosa esso scriva) non sia al di fuori della realtà, ma è una conseguenza, dal momento che lui osserva e coglie particolari che gli altri non colgono e ci ricama attorno una storia che è la conseguenza della contrapposizione e unione dei due mondi (quello reale di tutti i giorni e quello dentro di se). Io lo chiamo il mondo nel mondo (il mio prossimo romanzo tratterà di questo argomento).

Perché leggere horror? Perché non leggerlo? potrei rispondere se fossi in un talk show televisivo, ma non mi sembra il caso di liquidare l’argomento con tre parole e un punto interrogativo (20 caratteri spazi inclusi).

Tra le persone che leggono horror ci sono in primis le schiere di appassionati (me compreso, lo scrittore è prima lettore). Gli appassionati divorano libri horror, ma sono anche i più difficili da saziare. Sono molto esigenti e se sentono puzza di roba andata a male, abbandonano immediatamente (secondo avverbio in -mente) per dedicarsi ad altro. Il giudizio di un lettore forte di questo genere di narrativa vale più di mille consigli dati da altri, ma non occorre commettere l’errore di voler far felice gli appassionati, altrimenti sai che macelli. Lo scrittore deve scrivere la sua storia, quella che ha dentro e se poi piace o meno lo giudicheranno gli altri. Il vero problema, ma anche quello che appaga, è che il lettore forte sa benissimo di cosa stiamo parlando e se a metà di un libro di fantasmi facciamo apparire Garibaldi con la carica dei mille che va in soccorso all’eroe di turno per liberarlo dal male, state certi che il lettore forte si farà sentire e anche ad alta voce. Quando io leggo un libro di genere, è come se mi trovassi a casa mia. Le storie, i luoghi, i personaggi, hanno sempre qualcosa di familiare per me e se nel cammin di nostra vita mi arrivasse Garibaldi mi incavolerei pure io, per non dire un’altra cosa.

Anche se sembrerà strano ai lettori non abituati a questo genere letterario, anche l’horror (per essere credibile) deve rispettare certi canoni. Una storia di vampiri non può non prevedere la notte. Quasi tutti sanno che il metodo per uccidere un licantropo è una pallottola di argento al cuore. Non si può non tenerne conto, Ci sono “regole” dettate sin dalla notte dei tempi. Certo ci sono le sperimentazioni, le contaminazioni tra i generi, chi sovverte tali regole a piacimento, ma il tutto deve essere comunque plausibile per evitare di essere presi a pummarulate (pomodori gettati dalla folla a colui che è al centro del palco. In questo caso specifico: lo scrittore). Non posso scrivere che Vlad il vampiro prendeva il sole sulla spiaggia di Terracina sorseggiando thè freddo alla pesca o che il licantropo stramazzò al suolo dopo essere stato preso a schiaffi. Certo per una parodia comica-demenziale andrebbero benissimo, ma non in un romanzo horror (serio o quasi).

Finita la lunga parentesi (scusate) sul “lettore fedele” possiamo parlare del lettore occasionale, colui che divora qualsiasi genere di testo e, che si tratti di horror, romance, o giallo poco gli importa. Lui legge tutto perché è aperto a qualsiasi tipo di storia, ma anche qui attenzione. A Napoli si dice “cà nisciun è fess” (qui nessuno è fesso).

Ma siamo andati fuori tema? Credo proprio di sì, ma tralasciamo per un attimo le categorie di lettori e le varie differenze.

Secondo me devono leggere horror e possono apprezzarlo coloro cha amano un’atmosfera abilmente (terzo avverbio in -mente) consona all’immagine mentale di un’irrealtà al di là dello spazio e del tempo, in cui tutto può accadere perché in pieno accordo con certi tipi di immaginazione e illusioni normali per il cervello umano sensibile. Un tempo in cui si sogna e si ascolta, dal quale tuttavia, giunge l’eco dei più reali suoni della vita.

Antonio Ferrara

P.S. Per coloro interessati al fenomeno della scrittura. Provate a leggere il testo in corrispondenza degli avverbi scritti in rosso. Toglieteli, leggete come se non ci fossero. Non è meglio?